Tra i termini più interessanti che di recente hanno fatto il loro ingresso nel vocabolario, accanto ad algocrazia (società governata dagli algoritmi), decluttering (eliminazione del superfluo, delle cose che ingombrano i nostri armadi così come i nostri pensieri) e catcalling (si intendono le fastidiose molestie verbali per strada, come ad esempio o commenti sessisti) compare anche greenwashing, letteralmente “lavaggio verde”.
La parola, di chiara derivazione anglosassone, indica – secondo lo Zingarelli - quel finto ambientalismo di facciata “finalizzato a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale”.
Il neologismo nasce dalla combinazione delle parole green (il colore tradizionalmente associato all’ambiente) e whitewashing (insabbiare, nascondere qualcosa) e si riferisce, per l’appunto, al fenomeno in base al quale un’impresa dichiara di essere eco-friendly anche se in realtà non lo è.
Si tratta di una strategia di marketing, oggi abbastanza diffusa, basata su campagne e messaggi pubblicitari o in alcuni casi anche su iniziative di responsabilità sociale volte a dimostrare un finto impegno dell’impresa nei confronti dell’ambiente, al duplice scopo di:
allargare il bacino di utenza, attraendo i consumatori “ecosensibili” e, di conseguenza, aumentare il fatturato;
distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da eventuali difetti del prodotto o dai danni all’ambiente procurati dalle proprie attività produttive.
Quando nasce il greenwashing?
La pratica del greenwashing è relativamente recente e risale agli anni ’80 dello scorso secolo, quando a parlarne per la prima volta fu l’ambientalista statunitense Jay Westerveld a proposito delle pratiche utilizzate da catene alberghiere che facevano leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria per invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani, nascondendo in realtà una motivazione legata al risparmio economico.
Il fenomeno è andato sempre più crescendo negli anni ’90 e 2000. Tra i casi più noti in America, ricordiamo quello della compagnia petrolifera Chevron che sosteneva come i dipendenti della compagnia fossero impegnati attivamente nella tutela di orsi, farfalle, tartarughe e quello della Coca-Cola Life che pubblicizzava la sua bibita come un prodotto a basso contenuto calorico per la presenza della stevia al posto dello zucchero.
In Italia, ricordiamo lo spot di Ferrarelle che con la sua bottiglia a “impatto zero” prometteva la compensazione della CO2 emessa con la tutela di nuove foreste e la pubblicità di San Benedetto sulla sua bottiglia di plastica definita “amica dell’ambiente”.
Quali i rischi dell’“ecologismo di facciata”?
Vari i rischi del greenwashing: innanzitutto la perdita di fiducia. Infatti, quando i consumatori scoprono di essere stati ingannati è difficile ricostruire l’immagine dell’azienda, con la conseguenza che il danno può essere maggiore rispetto al beneficio che l’azienda pensava di ottenere. Peraltro, la scoperta dell’inganno può anche contribuire a generare nel consumatore una sfiducia generalizzata verso tutte le imprese green, anche quelle che sono davvero impegnate in attività volte a ridurre il proprio impatto sull’ambiente.
Altro rischio è la mancanza di un’azione concreta per raggiungere gli obiettivi di sostenibilità, finanziando progetti e imprese che non apportano nessun beneficio per l’ambiente.
I lavori dell’Unione europea sul greenwashing
Dal 2020, l’Europa lavora specificamente su linee guida volte a smascherare il greenwashing.
Tale attività rientra nel più vasto quadro della strategia elaborata dalla Commissione europea per realizzare un sistema finanziario che sostenga il programma dell’Unione per il clima e lo sviluppo sostenibile: sotto tale profilo, l’8 marzo 2018 la Commissione ha presentato il “Piano d’azione per finanziare la crescita sostenibile”, un piano cioè che vuole rafforzare il ruolo della finanza nella realizzazione di un’economia efficiente che consegua anche obiettivi ambientali e sociali.
Nello specifico, vengono delineate la strategia e le misure da adottare per la realizzazione di un sistema finanziario in grado di promuovere uno sviluppo autenticamente sostenibile sotto il profilo economico, sociale e ambientale, contribuendo ad attuare l’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e l'Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile.
Nel Piano di azione si fa, tra l’altro, riferimento sia all’integrazione della sostenibilità nei requisiti prudenziali degli istituti di credito (ad esempio, l’inclusione dei rischi ambientali, sociali e di governance nella revisione), sia alla creazione di marchi UE per i prodotti finanziari verdi sulla base del sistema di classificazione dell’UE, che consenta agli investitori di individuare agevolmente gli investimenti che rispettano i criteri ambientali o di basse emissioni di carbonio (si sta lavorando anche alla definizione di uno standard comune volto a individuare le caratteristiche affinché un titolo di debito possa avvalersi della denominazione “EU green bond”, le obbligazioni verdi a cui qualunque emittente bond o altri strumenti di debito possa aderire su base volontaria).
Piano sulla finanza sostenibile europea e Tassonomia: strumenti per smascherare il greenwashing
Il Piano sulla finanza sostenibile europea (Action plan on sustainable finance) include:
il regolamento (UE) 2019/2088 “SFDR” (Sustainable Finance Disclosure Regulation), entrato in vigore il 10 marzo 2021: l’obiettivo del regolamento è quello di uniformare i requisiti di reporting sui prodotti finanziari da parte di tutti i partecipanti ai mercati, combattendo il preoccupante fenomeno del greenwashing finanziario;
la Tassonomia Ue
il Regolamento sui Low Carbon Benchmarks.
In particolare, la Tassonomia UE, approvata dal Parlamento europeo, è stata adottata che nel 2020 e serve a definire quale sia davvero “un’attività economica sostenibile dal punto di vista ambientale”.
La Tassonomia è una classificazione comune delle attività economiche che possono essere considerate sostenibili dal punto di vista ambientale.
Le attività sono state selezionate in base a sei obiettivi ambientali:
mitigazione del cambiamento climatico;
adattamento al cambiamento climatico;
uso sostenibile e protezione delle risorse idriche e marine;
transizione verso l’economia circolare, con riferimento anche a riduzione e riciclo dei rifiuti;
prevenzione e controllo dell’inquinamento;
protezione della biodiversità e della salute degli eco-sistemi.
Nella Tassonomia delle attività economiche ecocompatibili definite come attività di transizione è stato incluso anche il gas e il nucleare, sempreché soddisfino alcuni criteri tecnici definiti.
Non è finita qui: il 25 luglio 2022 è stato pubblicato il Regolamento Delegato (UE) 2022/1288 che integra l’SFDR con le nuove norme tecniche di regolamentazione (RTS - Regulatory Technical Standards). In particolare, gli RTS specificano:
• il contenuto, le metodologie e la presentazione delle informazioni relative agli indicatori di sostenibilità e agli effetti negativi per la sostenibilità (PAI);
• il contenuto e la presentazione delle informazioni relative alla promozione delle caratteristiche ambientali o sociali e degli obiettivi di investimento sostenibile nei documenti
precontrattuali, sui siti web e nelle relazioni periodiche.
Continuando, a novembre 2022, entrerà in vigore la Direttiva Delegata (UE) 2021/1269 che prevede l’integrazione dei fattori di sostenibilità negli obblighi di governance dei prodotti finanziari.
Dall’Ue, arriva il divieto di greenwashing
È stata, inoltre, presentata una “proposta di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio” [COM(2022) 143 final – 2022/0092 (COD)] volta a modificare la direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali (UCPD) e la direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori (CRD).
Le modifiche proposte, tra l’altro – ha annunciato la Commissione europea – porteranno a:
introdurre “un divieto di greenwashing e di obsolescenza pianificata”, che costringerà i venditori ad apporre un’etichetta di sostenibilità sul loro prodotto solo se hanno ottenuto una certificazione o un riconoscimento da parte di un’autorità pubblica;
vietare la possibilità di fare affermazioni ambientali generiche come “eco-friendly”, “verde” o “eco” laddove i venditori non potranno dimostrare le reali prestazioni ambientali del prodotto;
aggiornare la “black list” delle pratiche vietate dalla direttiva “UCPD” sulle pratiche commerciali sleali (sarà quindi proibito, ad esempio, anche fare “generiche e vaghe dichiarazioni ambientali”, qualora non siano dimostrati in modo adeguato i benefici prospettati);
vietare l’esposizione di un’etichetta di sostenibilità su base volontaria se non sarà basata sulla verifica di terzi o di un ente pubblico.
Quali gli strumenti in Italia?
In Italia non c’è una legislatura organica e specifica per contrastare il greenwashing che è considerato alla stregua della pubblicità ingannevole.
Nel 2014 è stato introdotto l’art. 12 del Codice di Autodisciplina della comunicazione commerciale, che ha riconosciuto la vigilanza all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) e ha imposto direttive precise per la comunicazione e il marketing.
Tra gli altri soggetti che in Italia controllano la veridicità e attendibilità della comunicazione delle aziende, ci sono anche:
le associazioni di consumatori,
lo IAP, Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, che unisce i soggetti coinvolti nella pubblicità (imprese che investono, agenzie creative e mezzi di diffusione) per promuovere una comunicazione di marketing corrispondente al reale.
Peraltro, proprio quest’anno celebra 30 anni l’Ecolabel UE, il marchio di qualità ecologica dell’Unione Europea (Ecolabel UE) - istituito nel 1992, in vigore negli Stati membri dell’Ue e nei Paesi appartenenti allo Spazio Economico Europeo – SEE (Norvegia, Islanda, Liechtenstein) – che contraddistingue prodotti e servizi che pur garantendo elevati standard prestazionali sono caratterizzati da un ridotto impatto ambientale durante l’intero ciclo di vita. Si tratta di un’etichetta ecologica volontaria basata su un sistema di criteri selettivi, definito su base scientifica, che tiene conto degli impatti ambientali dei prodotti o servizi lungo l’intero ciclo di vita ed è sottoposta a certificazione da parte di un ente indipendente (organismo competente). Nel corso di questi tre decenni, l’Ecolabel UE ha rinforzato le scelte di sostenibilità, ha guidato i consumatori, i produttori e i decisori politici verso un’economia circolare, verso la mitigazione climatica e la riduzione dell’inquinamento.
Alla luce delle citate modifiche della normativa Ue in arrivo, l’utilizzo dell’Ecolabel Ue sarà ancora più rigoroso e veritiero.
Ai consumatori, sempre più sensibili alle tematiche ambientali, non resta che stare attenti e utilizzare le molteplici fonti informative a disposizione anche in rete, in modo tale da poter essere in grado di prediligere aziende, processi e prodotti che pongono il rispetto dell’ambiente tra i loro obiettivi principali, nell’ottica di una economia sempre più verde e circolare.
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