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ASCOLTANDO IL NOSTRO TEMPO


Paolo Perezzani

Ha studiato con Salvatore Sciarrino. Laureato in filosofia presso l’Università di Bologna.

Nel 1986 ha frequentato i corsi del Centro di Sonologia Computazionale dell’Università di Padova e nel 1994 lo “Stage d’informatique musical de l’Ircam” 1994, a Parigi.

Tra i diversi premi: nel 1992 ha vinto il Concorso Internazionale di Composizione di Vienna con Primavera dell’anima (per orchestra), eseguito dalla Gustav Mahler Jugendorchester diretta da Claudio Abbado.

E’ stato assistente ai Corsi di Salvatore Sciarrino a Città di Castello.

Insegna Composizione al Conservatorio di Mantova.

Come descriverebbe tutta la musica ma anche tutte le nostre esperienze d’ascolto, anche non musicali, del nostro tempo? In altre parole come descriverebbe il mondo acustico in cui siamo immersi quotidianamente? Lo definirei rumoroso, e non solo o non tanto per la tipologia o la qualità dei suoni che lo abitano. Per quanto riguarda questi aspetti - per esempio quello della intensità dei suoni (misurabile in decibel) - che caratterizzano il paesaggio sonoro delle nostre città, basterebbe ricordare che la stessa O.M.S. (l’Organizzazione mondiale della sanità) cerca da tempo di sensibilizzare i decisori politici sui diversi effetti nocivi dell’inquinamento acustico sulla salute, fornendo loro linee guida e raccomandazioni, il più delle volte inutilmente.

Per comprendere il carattere rumoroso del mondo acustico in cui abitiamo, e per comprendere la complessità del problema ecologico con cui abbiamo a che fare, mi sembra però non meno necessario considerare l’invasività anche di un altro tipo di “rumore”. Mi riferisco al “rumore” nel senso “informativo” del termine - quello studiato in psicologia e in semiotica, e che in ambito cognitivista viene definito come information overload(ing) -, provocato dal nostro trovarci costantemente immersi in una sorta di continua sovrapposizione di segnali (che dal punto di vista acustico sarebbe inutile distinguere in base alla maggiore o minore armonicità del loro spettro - cioè: più o meno “rumorosi” - , o alla loro ampiezza - cioè: più o meno “forti” -, e che, anzi, sarebbe addirittura secondario distinguere come sonori, o visivi, o d’altro genere ancora). Quel che importa è che tali segnali, arrivando a interferire “rumorosamente” l’uno con l’altro, possono rendere difficile o impossibile quella focalizzazione dell’attenzione senza la quale risulta minacciata la possibilità stessa di distinguerli, e dunque di percepirli. E’ così che possono venire a mancare le premesse indispensabili – il silenzio soprattutto - affinché tra noi e ciò che ci inviamo reciprocamente (in forma di suono o in altro modo) possa instaurarsi quel contatto, o incontro, che diciamo di ascolto.


Quanto a cosa si possa dire di “tutta” la musica del nostro tempo, e prima ancora di valutare la (im-) possibilità di descriverla in toto, considererei, preliminarmente, che un oggetto o una sostanza definibile come “musica” in realtà non esista di per sé. Non si tratta solo di tenere conto dell’instabilità di un concetto che è andato costantemente modificandosi nel corso dei secoli, assumendo significati diversi a seconda dei contesti culturali di riferimento; ciò che qui è ancor più rilevante osservare – e anche in rapporto alle considerazioni precedenti - è che l’esperienza del nostro entrare in contatto con la “musica” non è tanto quella di trovarci di fronte a un oggetto (che allora potrebbe essere anche solo contemplato o conosciuto, studiato, analizzato…), ma rimanda piuttosto al momento dell’accadere, ogni volta, e ogni volta singolarmente, del nostro incontrarla ascoltandola: l’incontro che, completandola, le permetterà ogni volta di esistere in quanto evento del suo manifestarsi.

Per questo ciò che è più necessario cercare di descrivere è l’attuale situazione dell’ascolto, e della relazione di noi stessi e della musica con questa esperienza.


Che risvolti culturali ha avuto e ha sulla società questa nuova realtà acustica nella quale siamo immersi quotidianamente?

Se dunque il “rumore” in cui siamo immersi, inibendo le nostre stesse facoltà percettive, rischia di minacciare la possibilità di ascoltare, sarebbe davvero necessario riflettere sulla reale gravità (anche da questo punto di vista) del problema “ecologico” che caratterizza il nostro tempo. Perché quella dell’ascolto non è tanto un’esperienza ricettiva, quanto un “andare incontro a”, rivestendo di senso ciò che ci viene detto: facendo solo così esperienza sensibile della nascita del senso (almeno da quando un senso non ci pare più garantito perché proveniente da un qualche al di fuori dal mondo). Per questo una società che non può o non sa più ascoltare e ascoltarsi, è una società destinata a morire: senza invii e rinvii di senso e senza ascolto una qualsiasi comunità perde la possibilità di rinnovarsi e di rinascere continuamente. Fine della creazione.


Com'è che reagisce a questo panorama chi, come i compositori, si occupa di musica e di ascolto?

Di quel “re-agire” menzionato nella domanda, importa intanto considerare che esso richiama il fatto che il fare dell’artista consiste anche sempre in un agire, e che il gesto in cui si concretizza può possedere la capacità di lasciare un segno in grado di incidere sulla realtà, più di quanto la società attuale sia disposta a riconoscere. Perché, agendo sulle nostre abitudini e stili percettivi - attivandoli, modificandoli, rinnovandoli -, gli artisti (forse soprattutto loro, e probabilmente insieme agli scienziati: ma questo non lo possiamo approfondire qui) costruiscono e distruggono significati, contribuendo a inaugurare, a creare, a far nascere nuovi orizzonti di senso (di mondo).

Inutile però, e oggi (aggiungerei: finalmente) del tutto impossibile, tentare di descrivere l’attuale situazione musicale in maniera unitaria o anche polarizzabile secondo una qualche logica dialettica. Ogni singolo artista, più o meno consapevolmente, in realtà opera sempre in ascolto e come in risonanza con gli altri e con il resto del mondo, contribuendo così ad animarlo, e proprio mettendo in circolazione, appunto, del senso.

Il minimo che si possa dire è che il panorama risulta enormemente frastagliato, e che oggi certamente non esiste qualcosa, se mai è esistito, come un linguaggio comune. Né, d’altra parte, la riduzione stessa della musica a linguaggio pare adeguata a rendere il senso e il peso della sua presenza nella società.


La musica del nostro tempo si relaziona con quest’aspetto del mondo acustico nel quale viviamo? Come? E soprattutto questo potrebbe valere per tutte le forme musicali del mondo occidentale odierno?

Si potrebbero senz’altro citare diversi nomi di compositori della seconda metà del 900 nei quali, in maniera più o meno consapevole, è evidente la sensibilità nei confronti delle tematiche che abbiamo appena toccato; ma nell’impossibilità di tentarne qui un elenco che risulterebbe sempre insufficiente o bisognoso d’infinite precisazioni, quello che si può dire è che proprio nelle esperienze compositive più importanti e innovative degli ultimi decenni è evidente una sorta di urgenza condivisa, riconducibile proprio alla questione su cui ci siamo soffermati: la centralità, o forse la necessità di riattivare (o di salvare) l’ascolto (penso a Nono, Sciarrino, Lachenmann, Grisey…).


Da qui l’esigenza di arrivare a pensare il comporre come un costruire (o, appunto, un…comporre) il suono “per” l’ascolto, e non soltanto nel senso di destinarlo o rivolgerlo all’ascolto, ma anche e soprattutto nel senso di volere attivare o, appunto, riattivare o rinnovare l’ascolto stesso (non c’è sostanziale differenza tra queste possibilità), aprendolo e aprendoci a nuove possibilità di mondo.

Quanto al riferimento a “ tutte le forme musicali del mondo occidentale odierno”, bisognerebbe qui allargare il campo delle nostre riflessioni ben oltre i limiti che ci possiamo concedere, prendendo innanzitutto in considerazione la presenza massiccia di esperienze musicali con evidenti finalità e limiti commerciali.

Sarebbe d’altra parte curioso che, nel mondo della “equivalenza generale” (per dirla con Marx), solo alla musica fosse concessa la possibilità o il privilegio di sottrarsi al destino di ridursi a merce. Dunque è proprio così: c’è molta merce musicale in giro per il web e sulle televisioni. Anche questo fatto andrebbe comunque situato all’interno di quella che Jean-Luc Nancy da tempo definisce come una radicale mutazione della nostra civiltà, i cui molteplici segnali sono altrettante manifestazioni di ciò che neppure la parola “crisi” sembrerebbe in grado di enunciarne la radicalità. D’altra parte il significato del termine “mutazione” è alquanto diverso rispetto a quello di “trasformazione”: quest’ultima concerne il passaggio da uno stato delle cose a un altro (con inevitabile “crisi” dello stato precedente) e a volte può comprendere addirittura la ciclicità di tale processo. Quando invece in un sistema accade una “mutazione” (per esempio, in ambito biologico, riguardante il progetto genetico di un organismo vivente), allora ci si allontana certamente dallo stato di partenza, ma questa volta verso l’aperto di un’imprevedibile serie d’infinite possibilità.


Se il nostro tempo appare descrivibile come un tempo di mutazione, allora non ci resta che tentare di leggere ciò che accade, sapendo che ciò verso cui apre è la stessa non prevedibilità del futuro che in realtà abbiamo sempre saputo, a cui si è però aggiunta la nostra perdita di qualsiasi illusione riguardante una qualche necessità, o logica, o progresso della storia.

Limitandoci anche a una sola osservazione, o tentativo di “lettura in risonanza” di questi fenomeni musicali di più largo (anzi: planetario) consumo, ciò che colpisce è allora la presenza in essi di qualche inaspettata vicinanza con alcuni degli aspetti che abbiamo toccato riflettendo sulla situazione della musica occidentale cosiddetta “colta”. Non è forse vero che anche al centro dei prodotti musicali più commerciali c’è proprio il suono e la ricerca dell’ottimizzazione della sua percepibilità (l’armonia, per esempio, vi è sostanzialmente assente, e anche l’aspetto melodico è spesso ridotto a pochissimi frammenti...)? Senza alcuna pretesa di anticipare valutazioni, e anzi sollecitando la necessità di approfondirne lo studio, a me sembra che già questo significhi che, al di là di altri aspetti – per esempio la smisurata presenza di ripetizioni (finalizzate a facilitare una comprensione immediata e perciò funzionali all’immediato sfruttamento commerciale…) -, qualcosa di comune tra le diverse espressioni musicali anche del nostro tempo probabilmente c’è e che, com’è sostanzialmente accaduto per tutte le epoche precedenti, la sua riconoscibilità potrebbe risultare più evidente quando sarà osservabile da una sufficiente distanza storica.

Come si potrebbe mettere in atto una strategia di sensibilizzazione a livello culturale riguardo a questo aspetto? In rapporto ai diversi aspetti che abbiamo toccato, a cominciare dall’urgenza ecologica in senso lato da cui siamo partiti, credo che chiunque abbia a che fare con la musica (compositori, esecutori, insegnanti, organizzatori, musicologi ecc.) debba percepire la responsabilità di un compito che a questo punto sintetizzerei così: quello di lavorare per l’ascolto, affinché continui ad esistere, non si esaurisca il desiderio di ascoltarci.

L’aperto verso cui la mutazione in atto ci proietta, potrà infatti comprendere ancora, oppure no, l’esistenza di una società e di un mondo umano. Volendo almeno parteggiare per la prima possibilità, è necessario essere consapevoli che senza ascolto reciproco, senza rinvii di senso, senza la costante creazione di senso (quella che forse soprattutto dagli artisti ci possiamo attendere) anche questa prospettiva potrebbe abbandonarci.

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